lunedì 3 ottobre 2016

Allocuzione cavalleresca...

 
Insondabili Cavalieri,
 
è noto quanto al popolo piaccia abbuffarsi quotidianamente nel rumoroso fast food dell’informazione. I dotti siedono invece alla tranquilla tavola della cultura, dove ordinano alla carta. Gli eletti infine, quel che ciascuno in questa corte ha scelto di provare ad essere, non si accontentano né delle notizie, né della conoscenza. Vogliono capire. La sapienza, però, non sta lì ad aspettarci in un libro o un punto determinato. Si nasconde in posti molteplici e impensati, spesso sgradevoli o pericolosi, in cui solo una sincera vocazione alla ricerca può condurre. Il nostro metodo, messo a punto in tanti anni di lavoro comune nel sito e nei convegni, considera indispensabile alla comprensione di un oggetto l’individuazione del contesto, delle persone e degli scopi che gli hanno dato vita. Ciò vale anche per la cavalleria.
 
In Occidente fu Atene la prima a dotarsi di un corpo equestre, che intorno al 440 a.C. superava le mille unità e fu fondamentale nelle guerre persiane. La santa alleanza tra uomo e cavallo divenne però un archetipo immortale grazie al ventennale binomio tra Alessandro Magno e Bucefalo, che si sciolse solo con la gloriosa morte dell’animale dopo la battaglia di Idaspe. Correva l’anno  326 a. C.. Un secolo  più tardi provocò grande scalpore la sconfitta romana a Canne, in gran parte dovuta all’abilità con cui Annibale manovrò la cavalleria numida. Circa venti anni dopo Cartagine venne castigata a Zama da Scipione (quello dell’elmo del nostro inno nazionale), che non solo aveva fatto tesoro della tattica del nemico, ma era riuscito a ingraziarsi i numidi e farseli alleati. Da allora la cavalleria assunse un ruolo chiave nella milizia romana, sino ad allora centrata sulla fanteria. Dunque, se parliamo di cavalleria, il primo dato da assimilare è che nacque per sfondare le linee nemiche, non per aprire la portiera alle signore. Un uomo armato, se montato a cavallo guadagna in statura, mobilità e forza. Il problema è che mantenere e addestrare un cavallo, per non parlare del cavaliere, è una faccenda costosa. Quando l’invenzione della staffa e della resta, che consentiva di fermare la lancia al torso, resero la cavalleria pesante un’arma tattica paragonabile ai cacciabombardieri di oggi, un esercito serio non ne poteva fare a meno.
 
Non restava altro che reclutare come cavalieri elementi economicamente autonomi, o renderli tali con dei benefici. Greci e romani avevano adottato la prima soluzione, dai Merovingi in poi il medioevo scelse la seconda. Il re si circondava di un gruppo di guerrieri scelti, i trustis, cui concedeva vari privilegi. Da Carlo Magno in poi, vennero loro riconosciuti onori e terre in un rito, detto omaggio, in cui il vassallo che li riceveva si dichiarava fedele al proprio signore. In tale usanza, durata secoli e simbolicamente tramandatasi sino ai giorni nostri, troviamo alcuni dati determinanti. La cavalleria è una forma di nobiltà che proviene dalla fede e dall’affidabilità, non dalla nascita. E’ servizio ed esempio, non comando. Va anche aggiunto che al cavaliere diventato castellano l’agiatezza consentì gusti raffinati, che si sublimavano nell’idealizzazione della donna. E’ a questo punto che la cavalleria si lega alla galanteria.
 
Torniamo ora alle vicende storiche, per scoprire gli ultimi elementi. Per secoli la chiesa cristiana non aveva favorito il pellegrinaggio, anzi la regola di San Benedetto aveva sancito per i monaci la stabilitas loci. Nell’XI secolo le cose cambiarono. L’influente abbazia di Cluny promosse il pellegrinaggio verso Santiago di Compostela, che traccerà quel Patrimonio dell’Umanità che oggi conosciamo come Camino Frances, ma si fanno più frequenti anche le partenze verso Roma lungo la Via Francigena e quelle verso Gerusalemme. Poiché quest’ultima era in mano musulmana, i cristiani che vi giungevano erano particolarmente esposti. Per garantire sicurezza ai fedeli diretti in Terra Santa, Urbano II indisse la prima crociata, cui parteciparono in 40.000. Alcuni erano avventurieri che speravano di acquisire ricchezze, ma non pochi furono quanti se ne spogliarono per partire. Sinceramente trovo che i popoli facciano meglio a esportare formaggi e tessuti piuttosto che religione o sistemi politici, fatto sta che quel momento ciò che accadeva a Gerusalemme, a cominciare dalla situazione dei pellegrini, cominciò a far notizia. Per la loro sicurezza e assistenza nacquero gli ordini religiosi cavallereschi, tra cui i Pauperes commilitones Christi templique Salomonis, o Templari, ed i Cavalieri dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, meglio noti come cavalieri di Malta.
 
Da nove secoli tali sodalizi sono il modello che ha fatto dell’ordine la forma definitiva della cavalleria, il luogo dove l’individualità dell’uomo d’arme coincide con la fratellanza dell’uomo di fede. Per farne parte un cavaliere, non diversamente da un monaco, deve far propria una regola. Superficialmente la cavalleria è solo un riconoscimento dall’alto, come accade negli ordini al merito. In profondità è soprattutto una conquista personale, una scelta che presuppone e impone il rispetto di caratteristiche attentamente selezionate dalla storia: risolutezza nell’agire, fermezza nel credere, capacità di servire e condividere, obbedienza a principi morali. E’ una categoria dello spirito, e come tale non ha un’epoca o un luogo più o meno adatto di altri. Quando alcuni di noi si resero conto che il mondo maschile era la nuova Gerusalemme, nel quale l’uomo dai gusti tradizionali stava diventando un pellegrino in terra ostile, fondarono un Ordine che lo difendesse.
 
Fu con questo scopo che nacque il Cavalleresco Ordine dei Guardiani delle Nove Porte, che esiste come gruppo dal 1982, ha questo nome dal 1988 e personalità giuridica dal 1997. Le porte rappresentano altrettante discipline dell’arte di vivere, varchi diversi verso un’intuizione unitaria di qualcosa che si può dire in mille modi, tutti così sbagliati e ambigui che è meglio tacerla e mettersi in cammino, sperando di arrivarci. Ma le porte danno accesso anche ai più grandi piaceri e pertanto attirano turisti e profanatori, ecco perché hanno bisogno di guardiani. I principali simboli del Cavalleresco Ordine sono la chiave della conoscenza e la spada per difenderla. Nessuna croce, nessun paramento, nessuna donna. Non conta la condizione sociale e neanche la religione, perché la fede che ricordiamo nel nostro brindisi è del tutto laica. Il nostro cavaliere ideale, pur essendo armato per definizione, non cerca la battaglia. Ama spendere la  vita al castello, o nella ricerca del suo graal, ma non per questo esita a intervenire quando avverte il dovere di difendere ciò in cui crede. E’ allora, quando comprende che le cose diventano proprie proteggendole più che acquistandole, che si eleva allo Stato di Guardiano.
 
Non essendo un asceta, il Cavaliere vive con intensità la condizione umana e pone attenzione ad ogni cosa o persona, perché il mondo gli parla con il linguaggio della grazia e non della dimensione. Il nostro monumentale Statuto ricorda come il Creato sia colmo di bellezza, ma non per questo il cavaliere le è indifferente o la spreca, anzi se ne erge a paladino. I draghi, che non mancano dentro e fuori di lui, li guarda negli occhi, l’unico punto dove vibrare il colpo per abbatterli. Talvolta si batte, apparentemente solo, contro quelli che la miope moltitudine, ben pasciuta di passività e indifferenza, vede come mulini a vento. Allora le sue forze sono moltiplicate da quei simili da cui non si sente mai lontano, dagli antenati cui si ispira, dai valori che sostiene e lo sostengono.
 
Sentendo che la più grande minaccia sono l’approssimazione e la cancellazione delle differenze, che comportano corruzione del gusto e dell’anima, abituato alla rinuncia ed alla solitudine che sempre recano con sé le certezze, si rifiuta di adeguarsi a quelle forme di superficialità che tendono ad appiattire l’esperienza stessa della vita, togliendole spessore: alla sciatteria spacciata per praticità, alla scostumatezza rinominata semplificazione, alla prevaricazione che viaggia ben camuffata sotto il fieno della prevenzione, in poche a parole a tutto ciò che è fatto male quando avrebbero potuto essere fatto bene, in modo uniformato quando avrebbe dovuto avere varietà. Rifiuterà il bicchiere di plastica al posto del vetro, il tu quando ci voleva il lei, la lode che non sente di meritare. Non chiamerà cucchiaino una disgraziata bacchetta per agitare il caffè e come questa eviterà tutte le definizioni travisate dalla viltà, sempre pronta ad edulcorare le pillole di pigrizia e ipocrisia che ci fanno dimenticare di aver abbandonato la lotta.
 
Avvezzo a sentirsi in un ordine di idee e di valori, in simili situazioni il suo intervento è nell’interesse dell’ordine delle cose. Se  protesta per un servizio indegno, o pretende che la valigia gli sia portata in camera, non lo fa perché è snob o schizzinoso, bensì perché sente che accettare meno di ciò che gli è dovuto sarebbe una complicità con la barbarie di cui i posteri, o semplicemente quelli che verranno subito dopo di lui, potrebbero chiedergli conto. Che appartenga o meno ad un ordine, il cavaliere si distingue per il coraggio e l’abnegazione. Difende la giusta causa, più che se stesso, nelle grandi come nelle piccole imprese. Soprattutto combatte per fede, non per la conquista. Ciò che per lui conta nella battaglia, che alla lunga si confonde con la vita, non è che l’onore, il più alto titolo che potrà trasmettere agli eredi. Conservandolo senza macchia, si mette in condizione di attingere alla nobiltà, stato di dignità inscindibile dalla cavalleria e che ne rappresenta insieme l’essenza, il punto di partenza e il sommo    raggiungimento.
Giancarlo Maresca
(ordine dei guardiani delle nove porte...)


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